Ottant’anni dopo Hiroshima: lo spettro del nucleare e l’Europa smemorata.

A ottant’anni dal bombardamento atomico di Hiroshima (6/8/1945) e Nagasaki (9/8/1945), lo spettro del nucleare torna a farsi sentire. Russia e Stati Uniti, oggi come allora, agitano minacce che risuonano nel cuore dell’Europa, come un batacchio sinistro che percuote una campana stanca (**: vedi anche articolo che segue). Quella stessa Europa che per decenni aveva vissuto sotto la deterrenza atomica, oggi sembra aver perso memoria della lezione più drammatica del Novecento.

Paradossalmente, proprio gli Stati che hanno vissuto da protagonisti le due guerre mondiali – Francia, Germania, Regno Unito – sembrano oggi dimentichi di ciò che la storia avrebbe dovuto insegnare.

La Francia, ancora avvolta in una “grandeur" mai sopita, lascia recitare il ruolo al suo “napoleoncino”, ostentando una leadership che spesso esclude più che unire.

La Germania, nonostante il trattato di Versailles le avesse inibito il riarmo, il 1° settembre 1939 invadeva la Polonia forte dell’esercito meccanizzato più potente del mondo, ed oggi si erge a paladina di cause che appaiono più dettate da sensi di colpa storici che da coerenza diplomatica. Il suo recente impegno nel riconoscimento della Palestina ne è un esempio emblematico: comprensibile sul piano umanitario, ma controverso alla luce del suo stesso passato.

Il Regno Unito, ancora incerto tra isolazionismo e protagonismo post-Brexit, si mostra in Ucraina con gesti simbolici più che concreti, come a chiedersi – alla maniera di Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vado o non vado?”. Non lo sa l’Inghilterra che manda i suoi Ufficiali in Ucraina, che le guerre hanno assunto il carattere di “mondiali" quando truppe di Paesi terzi si sono insinuate tra le fila dell’uno o dell'altro belligerante?

Nel frattempo, l’Italia, storicamente gregaria, oggi tenta di avere un ruolo, magari nella ricostruzione dei territori distrutti – dall’Ucraina a Gaza – o nella gestione degli interessi economici connessi. Ma il prezzo della nostra partecipazione ai “tavoli che contano” sembra essere la rinuncia alla nostra autonomia decisionale. Per stare seduti, accettiamo scelte che spesso premiano altri – Germania in testa – e danneggiano le nostre imprese, per le quali si promettono poi compensazioni insufficienti.

Il vero problema è che questo tavolo europeo a 27 non ha altre gambe che quelle degli Stati membri che lo sostengono. Ma oggi, per farlo pendere dalla propria parte, ciascun commensale sembra pronto a togliere il proprio sostegno. Un suicidio politico collettivo.

Smarcarci non significherebbe per forza isolarci. L’Italia, quando ha saputo essere autonoma, ha anche saputo eccellere. La nostra storia ci ha insegnato – a nostre spese – che alleanze sbagliate possono trasformarci da alleati in carne da cannone, come accadde in Russia nella Seconda Guerra Mondiale. Oppure in manodopera irrisa nei campi di lavoro.

Nel contesto di un’economia globale dove non abbiamo materie prime, e trasformarle costa più che altrove, potremmo invece tornare a fare ciò che sappiamo fare meglio: valorizzare la nostra cultura, il nostro turismo, le nostre eccellenze. Puntare sul “made in Italy" autentico, sul genio e sulla resilienza dei nostri “capitani di ventura”, in grado di navigare anche tra i marosi della politica internazionale, nonostante i dazi ed i transalpini lazzi dei finti compagni di viaggio. 

L’Europa di oggi non è più quella dei suoi padri fondatori. È abitata dai loro nipotini,  eredi distratti, che hanno perso il senso di cosa significhi costruire la pace e sembrano pronti a riaprire la strada al riarmo che dovevamo scongiurare da ottant’anni.

Sul fronte del Medio Oriente, la sinistra si aggrappa a Gaza come a una bandiera di principio, ma dimentica di chiedersi quanto di quella presa di posizione sia reale e quanto ideologica. Fa riflettere che sia stata proprio la Germania – responsabile storica dell’Olocausto – a spendersi oggi per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Non si pretende vergogna, ma forse un minimo di riserbo, dopo anni di silenzio, sarebbe stato più coerente.

Il Medio Oriente, se vuole cambiare, deve poterlo fare da solo, senza imposizioni europee cariche di interessi geopolitici e contraddizioni storiche. Non a caso, la recente dichiarazione di New York – firmata da Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Giordania e Turchia – ha escluso Hamas ma non l’Europa. Forse proprio perché Francia e Germania non ne sono state protagoniste.

Intanto, anche Paesi nordici come Finlandia, Belgio e Svezia, un tempo silenziosi, oggi si sgolano in nome della sicurezza, stretti nella morsa dell’immigrazione incontrollata. Ma l’ONU stessa – con 150 su 193 Paesi che spingerebbero per uno Stato palestinese - ormai è composta da comparse prive di autonomia le quali, paralizzate dal diritto di veto, dimostrano solo come la diplomazia multilaterale sia sempre più teatro di retorica e impotenza.

L’Italia ha ancora una voce, ma deve decidere se vuole essere parte del coro, o cominciare a cantare da solista.
E forse, oggi, la seconda scelta potrebbe restituirci dignità, efficacia e una vera prospettiva di futuro.

Giancarlo Andolfatto - 2025 08 07

Nella foto: Terumi Tanaka, Shigemitsu Tanaka e Toshiyuki Mimaki, co-presidenti del premio per la pace Nihon Hidankyo, hanno gustato il kransekake, un dolce tradizionale norvegese, all'Istituto Nobel di Oslo. Questi sopravvissuti alle bombe atomiche americane sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, hanno dedicato la loro vita a raccontare le loro storie. Nihon Hidankyo è stato insignito del Premio Nobel per la pace 2024 per i suoi sforzi volti a realizzare un mondo libero da armi nucleari e per aver dimostrato attraverso testimonianze che le armi nucleari non devono mai più essere usate.

Il rintocco stanco (**: vedi anche articolo che precede)

A Hiroshima, ogni anno il 6 agosto, una campana risuona nel Parco della Pace per ricordare il bombardamento atomico del 1945. La campana viene suonata all'orario esatto dell'esplosione, le 8:15, per segnare l'inizio di un minuto di silenzio in memoria delle vittime.    Il rintocco della campana è un momento centrale di una commemorazione, che coinvolge non solo i giapponesi, ma anche rappresentanti di altri paesi, e simboleggia l'impegno per la pace e il disarmo nucleare. La campana, spesso chiamata "Campana della pace", è un simbolo di speranza e un monito contro la guerra.    Oltre a ciò, nel parco si trovano altri elementi commemorativi, ma il suono della campana e il minuto di silenzio, è un evento significativo che attira l'attenzione mondiale e rinnova l'appello per un futuro senza armi nucleari.    Quante urne cinerarie vogliamo ancora?   Giancarlo Andolfatto - 2025 08 10